A cura di Simona Vigo
Agoràrte – Milano – 2006
Dimensioni Catalogo cm 22 x 21 – 72 pagine
(Esaurito)
TESTI:
I volti umani troppo umani
di Matteo Nannini
A cura di Simona Vigo
Talvolta accade, quando si ha a che fare con anime dotate di un singolare ingegno e ispirazione fervente che spesso trascendono i confini della mite razionalità, che si incontrino delle affinità elettive e non strategicamente calcolate tra “i grandi” della storia dell’umanità e gli “esordienti” che ci auguriamo diverranno “grandi”. Questo mi pare il caso di un incontro inconsueto e quasi ironico tra la pittura del giovane Matteo Nannini e alcune sfumature della filosofia del magnifico e “maledetto” Friedrich Nietzsche. Colui che nel celebre scritto Umano troppo umano disse:
“Un’anima nobile non è quella capace dei voli più alti, bensì quella che si innalza poco e cade poco, ma dimora sempre in un’aria e ad un’altezza più libera e luminosa”.
Eccoci al cospetto delle anime nobili di Matteo Nannini: non cavalieri erranti, eroi immortali dalle armature scintillanti che combattono guerre mitologiche, salvatori impavidi di questa tanto giudicata e condannata contemporaneità. Gente comune, inquieta, alternativamente in guerra e in pace con la quotidianità. Sono coloro che si innalzano poco e cadono poco, sono sguardi assenti e assorti nell’attesa, accompagnata e mitigata dal fumi di una sigaretta. Sono risvegli tra lenzuola bianche, un volto di ragazza ancora assonnata che si lava i denti dopo una notte spesa a rincorrere sogni e a consolarsi di non averli raggiunti perché in fondo la realtà è meno romantica ma più autentica. Ci sono amici seduti intorno a una tavola imbandita con i resti di un lauto pasto che consumano serate tra risate e scherzi, forse qualche considerazione sui “massimi sistemi” innaffiata di buon vino e immancabili sigarette. Chissà se assomigliano alle anime nobili di Nietzsche, ma senz’altro sono tra le immagini più adeguate della sua amata e odiata “umanità troppo umana”.
I personaggi che popolano le opere di Nannini hanno una doppia connotazione: persone vere, di carne e di sangue, che partecipano alla vita dell’artista: amici, conoscenti, persone incontrate per caso che grazie all’esperienza pittorica diventano anime universali, rappresentazioni apolidi di uno stralcio di mondo. Sono versioni mascherate di un Sisifo spogliato dall’austerità mitologica, costrette a portare il loro personale fardello fatto di gioie e di dolori, di delusioni e soddisfazioni, di debolezze e piccole o grandi conquiste, giorno dopo giorno, nel tentativo di dare un senso all’immutabile ripetibilità di un destino indecifrabile se non attraverso la capacità di essere vissuto con leggerezza.
La mostra si apre con rappresentazioni di mestieri normalmente esclusi dalla iconografia accademica per ripercorrere ritratti, volti, scene di vita quotidiana, eventi conviviali e notti solitarie.
La serie dei “dacci oggi il nostro pane quotidiano” è ambientata nelle cucine di un ristorante: sono le opere in cui più che mai si fonde l’attualità del soggetto realizzato con la tecnica pittorica tradizionale. Puntuale, arguta, con una dedizione magistrale al dettaglio. La cuoca che scola la pasta in una cucina asettica dalla luce metallica, il pizzaiolo che sta infornando una pizza, un’altra cuoca che, concentrata e assorta nei suoi pensieri pulisce la verdura di un verde luccicante che quasi buca la tavola. Come se il loro mestiere fosse di importanza assolutamente vitale: dacci oggi il nostro pane quotidiano… da una parte raffigurato nella sua semplicità quasi scontata, il dietro le quinte di un’attività quotidiana che troppo spesso passa inosservata ma, dall’altra, recepito dall’osservatore con un’aura di silenziosa solennità nonostante la sottile vena ironica che indica l’assurdità di un lavorare per vivere sempre uguale a sé stesso.
E tuttavia non siamo al cospetto di una umanità sconfitta dalla noia e dal pessimismo perché Matteo Nannini non giudica, mette in scena. Dipinge ciò che vede tutti i giorni, nella sua personale quotidianità. Analizza con minuziosa scrupolosità gli stati d’animo che segnano i volti, ritrova la storia di una vita nell’intensità di uno sguardo, sulle rughe di una fronte corrucciata, nelle smorfie fissate sui volti da una pittura impietosa. Non sta a lui e non sta a noi fare congetture morali o psicologiche scardinando la misteriosa interiorità di un essere umano. Quello che percepiamo da fuori il quadro è la pregnanza o l’inconsistenza di una personalità, ma non esiste giudizio di valore, solo la pittura.
Questo non significa che Nannini sia un giornalista della pittura che si limita a riprodurre la realtà senza interpretarla. Egli stesso afferma che sulle sue opere “si spacca testa, corpo e cuore”, dipinge con “il cuore in fiamme, la mente febbricitante… Fino a perdere il fiato… nonostante tutto…” un inno “alla follia sublime della vita”. Costruisce l’impianto pittorico in cui inserirà i suoi personaggi con attenzione delirante, lavora la materia, studia le prospettive, i tagli di luce, utilizza una tecnica accademica usufruendo dei supporti più moderni e contando sulla conoscenza dei suoi modelli storici, in particolare Rembrandt, Velasquez e Ribera.
Mai si lascia sfuggire una sola emozione, senza trascendere nel sentimentalismo, a volte appare persino cupo o crudele in alcuni ritratti in cui non risparmia le miserie che legge nei volti. Una volta mi disse che quando concepisce e dipinge alcuni suoi personaggi, in qualche modo risuona in lui la lezione di Degas, in particolare la celebre opera dal titolo I bevitori di assenzio.
Nell’osservare le sue opere mi risuonano anche le parole di Zarathustra:
“Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a coloro che ci parlano di speranze ultraterrene, essi sono dispregiatori della vita, manipolatori di veleni”.
Fedeli alla terra, fedeli alla vita. I suoi personaggi questo sono, questo fanno. Ci parlano della vita terrena, del qui ed ora. Di una notte sfrenata in una discoteca, del pianto silenzioso in una camera l’albergo, della rabbia per una vita che non si è scelta ma che si vive con commovente fedeltà al passare del tempo su questa terra. Senza perdersi l’entusiasmo di un bicchiere di vino condiviso con gli amici o il turno di lavare i piatti facendo finta di essere un musicista…
Non troviamo speranza ultraterrene nei quadri di Nannini, ma la consapevolezza del bene e del male, mai disprezzo per la vita ma denuncia della sua ingannevole semplicità.
E alla fine della mostra quello che resta impresso nello spettatore è l’incontro con una vitalità debordante, con uno spirito inquieto e irriverente che ha saputo trasformare le emozioni che conosce in personaggi reali che osservano, raccontano, provocano, entrano in conflitto o in sintonia con lo spettatore. Si guardano tra di loro, dialogano, ammiccano, si sfidano vicendevolmente. E il loro autore, il loro creatore e “creatura di nessuno” (come lui stesso si definisce), li guarda e li riconosce ed entra in tensione emotiva con loro, e infine si congeda da loro abbandonandoli ai quadri perché sono già troppo vecchi per lui che è sempre coinvolto in nuove, impetuose passioni da dipingere, raccolto nel suo studio, scardinando la realtà in cui si è immesso senza riserve.
E allora, ancora una volta, sembra usare le parole di Nietzsche:
“Vi saluto, o stati d’animo, mirabili alternanze di un’anima impetuosa, vari come la natura ma di essa più grandi, perché vi superate di continuo, guardate sempre in alto; mentre la pianta profuma oggi come profumava nel giorno della creazione. Io non amo più come amavo qualche settimana fa; in questo momento non sono più dello stesso umore di quando ho cominciato a scrivere”
… o a dipingere.