Castello delle Rocche – Finale Emilia (MO) – 2005
Dimensioni Catalogo cm 24 x 21 – 35 pagine
TESTI:
Presentazione
“Lasciare che un volto ti rapisca, le sue rughe, le sue ombre, le sue emozioni. Lasciare che un corpo ti affascini, ti sconvolga e ti annulli. La vita che ci circonda, la potenza delle vite che camminano al nostro fianco ogni giorno, che ogni giorno costruiscono con ogni loro scelta, ogni loro gesto, la nostra storia, la Storia di questo mondo. Ma quanti dubbi, quante incertezze. L’onnipotenza presunta e la fine tragica. Basta un’onda, una scossa di questa madre Terra e noi tremiamo, soccombiamo come piccoli insetti trasportati da un soffio di vento.
In Matteo Nannini l’Uomo che torna prepotentemente con le sue manie, le sue paure, le sue gioie. Attimi rapiti, scolpiti nella tela, momenti di quotidiana umanità. Un colore per farci piangere, uno sguardo per farci ridere. Ma questi esseri che si dicono intelligenti cosa sono? Progetti ne hanno? I loro sogni dove finiscono mentre il Tempo li rapisce?
Nessuno di noi è eterno, nessuno di noi è immutabile, come non è eterno nulla di ciò che vediamo e conosciamo. L’unica certezza sono le nostre esistenze, esistenze a cui diamo un senso che le possa riempire, che ci possa colmare. Ma anche in queste certezze vacilliamo, sbattiamo contro muri, cadiamo, ricominciamo, crolliamo di nuovo. Che assurdi esseri che siamo, così forti e così fragili.”
Fernando Ferioli
Assessore alla cultura
HUMANA FRAGILITAS
Matteo Nannini non giudica!
L’ho capito quando, davanti ad un nutrito gruppo di suoi ritratti (non più di due settimane orsono), ho provato una sensazione strana: volti con inquadrature strette, mezzi busti, figure intere; persone comuni intente alle proprie occupazioni, preoccupate dei propri pensieri; donne e uomini solitari, raramente in gruppi e tuttavia il sentimento che ne scaturiva era sempre, comunque solitudine.
Per qualche attimo, mi sono sentita (dinanzi a tanta umanità) non umana! M’è parso d’esser divenuta un “angelo”, non un Cherubino d’alte gerarchie celesti, ma uno di quei silenziosi custodi che in alcuni momenti della vita si ha la sensazione d’aver dietro la schiena a guardare il proprio cammino, a sorreggere le spalle, a raddrizzare la vita.
Davanti a una tale palpitante umanità dipinta, invece di riuscire a farne parte ne sono stata esclusa, straniata come commossa spettatrice, invidiosa di tanta vita nel bene e nel male.
Esseri umani, con tutte le loro debolezze, le malinconie, le sconfitte, i dolori.
I volti di alcuni erano arresi, altri perduti in chissà quali pensieri, alcuni affaccendati; chi sembrava guardarsi dentro, chi fuori dalla tela, lontano, ma nessuno incrociava il mio sguardo, nessuno guardava “fuori” verso il “pubblico” e se succedeva, comunque non vedeva.
Il quadro… limite invalicabile del loro mondo, così straordinariamente terreno, senza dialogo con la mia dimensione; non potevo parlar loro, né loro a me eppure palpitavo della loro vita.
Mi sentivo un “angelo”, invidioso dell’uomo, incapace di giudicarlo, ma in lui protesa, orgogliosa dei suoi difetti e dei suoi pregi, delle sue bruttezze e della sua bellezza. Neppure davanti a volti colmi di mestizia ed errori commessi e ripetuti, ripetuti e mai ammessi, neppure allora ho saputo giudicare. Sono “tornata” essere umano e ho provato gratitudine, nonostante tutto.
Come ha saputo fare questo Matteo Nannini, non so!
Credo dipenda dalla sua tracotante umanità di venticinquenne di corpo e almeno cinquantenne nella mente. Nannini sembra essere un bambino/anziano o un anziano/bambino, d’una spiritualità latente, non del tutto consapevole, ma certamente intuita in attesa paziente della sua epifania.
Matteo gode di un talento raro, affinato da una dedizione al mestiere della pittura, costante, da una volontà di apprendimento e crescita mai pago. La sua ricerca tecnica, attraverso il confronto costruttivo e personalissimo con i maestri dell’arte, ha fatto sì che in lui il tempo dell’apprendistato divenisse veloce, vorace, febbrile. Nannini ha bruciato molte tappe, capace di condensare in tempi relativamente brevi e mai pazienti un sapere tecnico che avrebbe richiesto molti più anni.
Ribera, Rembrandt e il ‘600 tutto sono fin qui i paradigmi della sua concezione pittorica, tuttavia “rimasticata” e “digerita” dalla sensibilità di un giovane artista che vive a pieno il suo tempo. Il suo tempo è l’oggi, come d’oggi la sua sintesi grafica, i soggetti e il modus operandi. Le inquadrature ammiccano, da un lato, alla fotografia, dall’altro alla tradizione e non disdegna tagli spaziali volutamente sbilanciati come fermi – immagine di un film girato all’insaputa degli attori.
Attori “assoldati” tra la gente del vivere quotidiano, descritti con pastose cromie; il colore è denso, sicuro il tratto; il fondo sempre cupo, terroso su cui s’accendono, a forte contrasto campiture luminose e poche lumeggiature per descrivere fisionomie che paiono staccarsi dal buio diffuso come carnosi bassorilievi. Ridottissima la tavolozza: dieci/dodici colori e niente più, sporcati, per effetto atmosferico, da velature e sfregazzi, talvolta “schizzi” o dripping che offuscano il dettaglio; e di nuovo le “paste”, strato su strato, di tale corposa presenza da potersi leggere con i polpastrelli. Tuttavia la realtà di Matteo non è mai realistica, ma “soggettivissima” e sempre filtrata da un orizzonte poetico costruito sulla storia dell’arte. Cura personalmente l’intelaiatura e l’imprimitura alla maniera antica, con materiali, però, che la moderna tecnologia mette a disposizione, creando così una particolarissima “ricetta” sospesa fra la tradizione e il mondo attuale.
Questa promiscuità credo sia la chiave di volta del suo lavoro: lo è nella tecnica, lo è nella poetica, laddove sceglie di dipingere (lui, giovane d’una generazione “elettrica” che mastica computer e videoclip, plastica e siliconi). Pare quasi che in un movimento sillogistico dove la tesi è il progresso a tutti i costi (così esasperatamente veloce da divorare l’uomo stesso), Matteo si ponga come antitesi, consapevole che qualcuno deve pur sacrificarsi nel “tirare un po’ indietro”, per rallentare la folle corsa, affinché si possa giungere, al fine, ad una sintesi che sia l’avanzare al giusto ritmo, coi giusti mezzi, ad un passo umanamente sostenibile. Forse è per questo che Matteo, raccontandomi di sé in vista di questo scritto, diceva di sentirsi anacronistico, ma senza frustrazione, come un duellante, aggiungo io, che affronta col fioretto un avversario col fucile.
Nannini vive la pittura con totale partecipazione: dipinge per respirare, respira per dipingere ed è capace con simultaneo paradosso di deporre i pennelli a tempo indeterminato, come se più non gli importasse, per aderire a quella vita che costantemente descrive, per camminare nelle scarpe dei suoi soggetti così terreni, così umani, così densi di carne.
Matteo vive con loro un’identità, fiero delle sue/nostre debolezze, della sua carne, con tutti i limiti a noi uomini assegnati o, se volete, da noi stessi scelti.
Sofia Biscaccianti
IL TEMPORALE
Come è che entrai dentro quel salone non me lo ricordo esattamente; so solo che mentre camminavo tutto solo per la piazza, all’improvviso, come al solito in quella città, scoppiò un forte temporale.
Era dal mattino presto che le nubi mi accompagnavano in quel sabato un po’ uggioso e svogliato. Fatto sta che per coprirmi entrai immediatamente dentro a quel palazzone dalla facciata neoclassica; non sapevo cosa fosse, però la confusione di persone, signore con golfini celesti e giallini, di ombrelli che si chiudevano, di cappellini che venivano riposti nelle borse, mi attirarono al suo interno.
Non so perché. Salii le scale, seguii la folla, ritirai una pubblicità senza guardarla. Entrai.
Era un museo, ahimè! Ma ormai ero dentro.
Cominciai a girovagare per le varie sale, i soliti quadri noiosi, soliti ritratti, soliti soggetti religiosi, solite nature morte; le targhette ingiallite dicevano cose, ma erano troppo basse ed io non avevo voglia di chinarmi a leggerle. Poi entrai in una sala molto ampia, dalle pareti rosse, con una grande tavola centrale.
Incuriosito, cominciai ad osservare i quadri alle pareti. Nelle pareti più corte, uno di fianco all’altro, due quadri giganteschi narravano di porti e trasbordi e di barche di pescatori in mezzo alla tempesta. I toni erano grigi, neri e plumbei come quello del cielo che fuori continuava a scrosciare pioggia.
Nelle pareti più lunghe, ai lati della grande porta di accesso vi erano due opere molto più colorate; colori così accesi da sembrare quasi mediterranei, colori che al loro tempo dovevano essere sembrati modernissimi, come modernissima mi risultò essere la poesia che emanavano.
Il primo, lo riconobbi vagamente anche io, che di arte ne masticavo poca. Quell’antica, vecchia, bianca nave settecentesca, trainata sul fiume in fiamme per il tramonto rosso infuocato, tramonto che faceva il paio con le fiamme che uscivano dalla ciminiera della motrice a vapore che trainava la vecchia nave; quella dolcezza che emanava mi ricordava proprio alcune malinconiche serate in quel mio ormai ventesimo giorno in questa nuova città, passato a guardare i battelli sul grande fiume.
Ed anche l’altro quadro, quella macchia indescrivibile di rossi e di ruggine, di gialli e di ocra dal quale spuntava a folle velocità la macchina infernale di uno dei primissimi treni che correva su una lunga massicciata.
Mi ero talmente avvicinato ai quadri che dovette intervenire il custode per farmi allontanare perché temeva che li potessi segnalare o fare scattare l’allarme. Me ne andai un po’ scosso da quella stanza; chi lo avrebbe mai detto che dentro ad un museo si potessero provare emozioni?
Non mi ero mai reso conto come una città, grande o piccola che fosse, potesse contenere luoghi diversi da quelli che ero abituato a frequentare ed all’interno di uno dei tanti suoi numerosi palazzi contenere gioielli di sentimenti ed emozioni. Questa sensazione fu rafforzata quando, poche sale più avanti, entrai in una specie di corridoio grigio/azzurrino, in cui vi erano una serie di ritratti di persone singole o in gruppo.
In quella fila di ritratti quasi familiari, da piccolo salotto borghese, due di questi spiccavano fra tutti. Due capolavori fra tanti altri capolavori. Quasi facessero pendant l’uno con l’altro. Rappresentavano due donne che suonavano la spinetta. La prima in piedi sotto un grande ritratto di cupido che aveva un messaggio d’amore nella mano sinistra. Con la luce che entrava di spalle, il volto in parte illuminato e in parte all’oscuro, compresi gli occhi. I riccioli dei capelli e parte del collo descritti con un tono di liquida luminosità; una cornice dorata che brillava, colpita dal sole, come di luce propria.
L’altra, seduta in atto di suonare, con il volto in piena luce.
Tutte e due con lo sguardo rivolto a chi le stava osservando. Tutte e due con uno sguardo fiero ma languido al tempo stesso. Tutte e due invitavano ad ascoltare la musica che stavano suonando. Musica che pareva essere parte stessa di quella che in temporale, fuori, suonava sui vetri e sui tetti di quel luogo che le conteneva.
Tutte e due in attesa che qualcuno entrasse a suonare con loro in un duetto d’amore.
L’aura perlacea dei colori su quei piccoli quadretti li faceva risaltare fra tutti gli altri, li faceva riconoscere immediatamente, li faceva sistemare nel cuore in una posizione più elevata rispetto a tutti gli altri. Era forse questo il motivo per cui era diventato così famoso il loro autore?
Proseguii ancora per il museo un’altra mezz’ora e prima di uscire, non appena cessò il temporale, ritornai a vedere quella sala. Fuori l’aria era diventata di nuovo limpida. Il sole faceva capolino tra le nubi ma sapevo che sarebbe durato poco. Pensai che forse avrei potuto farmi una mappa dei musei della città ove rifugiarmi in caso di pioggia o di maltempo.
Certo che non potevo continuare a passare quei momenti solitari dentro i grandi magazzini o al cinema.
Decisi di tornarmene a casa, per cenare a casa! Basta trattorie, o fast food, o fish and chips, o improbabili pizzerie. In casa. In casa! Andai dal pakistano all’angolo della mia via per fare acquisti. Carote tritate, frutta secca, succo d’arancia, birra, mozzarelle e una scatoletta di tonno. Quella sera nessuno mi avrebbe tolto una cena davanti alla televisione. Pagai il tutto alla cassa e non feci a meno di pensare che quei negozianti sempre aperti, avevano risolto il problema di come trascorrere il loro tempo libero.
M’incamminai verso casa con la mia sporta di plastica, quando, all’angolo, mi colpì la bellezza di una ragazza. Aveva il collo, ed i riccioli dei capelli, di quella liquida luminosità della ragazza nel quadro visto al museo.
Gli sorrisi. Mi sorrise (finalmente!). Dissi ciao.
Mi rispose! Lasciai cadere la sporta con la cena come se non fosse roba mia e le chiesi se la potevo accompagnare.
Finalmente!
Ora anche Londra sembrava luminosa e musicale come i quadri del suo museo.
Graziano Campanini